venerdì, maggio 07, 2010

O Palhacinho Chegou


Vivevo a Berlino. 1984, 25 anni. Lavoravo sei giorni alla settimana, 10, 12 ore dentro le cucine di ristoranti italiani e spagnoli. Nonostante questo, non c’è stato un altro periodo nella mia vita in cui abbia frequentato così tanti concerti.

Egberto Gismonti si presentava in una chiesa. Ci sono andato con una ragazzina italiana, Gi, che sarebbe diventata mia moglie. La chiesa era piena. Lo spettacolo tardava ad iniziare. Ho domandato ad un giovane tedesco seduto vicino a me a che ora doveva cominciare. “Fa sempre così, Egberto, non si sa mai quando da il via e quando va via”. Non ho mai incontrato tante persone esperte in musica brasiliana come a Berlino. Quando Egberto è entrato, insieme al percussionista Naná Vasconcelos, un intenso profumo di un’erba dolce ha invaso l’ambiente. Il concerto è durato un’ora scarsa. Poi sono iniziati i bis, i tris, che si sono stesi per un’altra ora abbondante. L’ultimo pezzo era una melodia di una allegria melanconica, liberatoria e rassegnata come gli ultimi singhiozzi di un lungo pianto. “nananaNanananaNaana” Quella melodia mi è rimasta in testa per molto tempo, e l’eco di quella sensazione di fine concerto continuò a rimbombare dentro di me per molte stagioni ancora.

Dieci anni più tardi, 1994, 35 anni, vivevo a Natal, in Brasile, abitavo in una casa meravigliosa che Gi ed io stavamo costruendo davanti al mare Atlantico della spiaggia di Ponta Negra. Era un presente che portava con sé la consapevolezza di essere probabilmente il periodo aureo della mia esistenza. Gigliola mi regala un vinile per il mio compleanno. Lo metto sul giradischi e ascolto distrattamente, finche... “nananaNanananaNaana” Eccola! Prendo la copertina per scoprire il titolo di quella musica meravigliosa che mi aveva incantato così profondamente. “Palhaço”, Pagliaccio. Strano, deludente, inquietante, triste, patetico. Avrei preferito non conoscere il titolo di quel gioiello musicale. I pagliacci non mi piacciono, non mi sono mai piaciuti, nemmeno da bambino. Mi rendono triste, depresso, infelice. Non mi fanno ridere per niente i pagliacci. I comici sì che mi piacciono, gli ammiro, mi divertono e mi emozionano. Considero Charlie Chaplin uno dei più grandi artisti di tutti i tempi, lo adoro. Ma i pagliacci, no. Sono tristi, patetici e mi trasmettono infelicità. Chissà perché? Vedevo soltanto tristezza negli occhi di quei uomini di naso rosso che cercavano disperatamente di strapare delle risate alla platea ingenua dei poveri circhi di campagna che mi ricordo di aver frequentato nelle mie vacanze da piccolo.

Poi, ci sono stati anche gli ultimi capitoli dell’ultima telenovela nella quale ho lavorato, “Meu Pedacinho de Chão”, Mio Pezzetto di Terra del 1972. Avevo 13 anni. Il personaggio che interpretavo, Serelepe, ha preferito fuggire insieme ad una compagnia di circo per non dover andare a vivere in un orfanotrofio, lasciando dietro Pituquinha, la sua passione infantile, sua e mia. “Come vuoi che sia il tuo pagliaccio?”, mi domandò la truccatrice. “Un pagliaccio che piange”, rispose. E così è stato.

Notte fonda. 2010, 51 anni. Un’altra stagione bella della mia vita. Sono davanti al computer e mentre ascolto questa ormai vecchia melodia, a basso volume, per non disturbare Gi e mia figlia, Marina, che si devono alzare presto domani, cerco informazioni nella Rete per costruire la scheda informativa di “Palhaço” da condividere con i partecipanti del laboratorio di fototerapia che condurrò per il Master in Comunicazione e Linguaggi non Verbali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. È stata composta nel 1980.

Dov’ero, nel 1980?

Dio Buono, 1980, 21 anni! L’anno più difficile della mia vita, segnato da una terribile tragedia in famiglia. Una tragedia, purtroppo annunciata...

Rientro dall’Inghilterra in Brasile, in fretta e fuga. Dopo aver salutato mia madre, che mi è parsa così rimpicciolita, così diversa da come la ricordavo, sono andato a trovare un mio fratello che da giorni si era chiuso in una stanza. L’ho trovato che si trascinava per terra, urlava, piangeva, sbatteva la testa contro i muri. Io cercavo insistentemente di parlare con lui, di farlo “ragionare”, inutilmente. Era come se io non ci fosse. Fino a quando lui si ferma per un momento, mi guarda e dice lentamente: “O Palhacinho chegou”, “È arrivato il pagliaccetto”, e riprese l’esercizio più che legittimo di manifestazione del suo dolore. Soltanto allora mi sono reso conto che sembravo proprio un pagliaccio quel giorno. Portavo un pullover a strisce bianche, rosse e blu e indossavo una faccia da inglesino mulatto. Soffrivo come lui, ma non avevo il coraggio di dare sfogo alla mia pena. La portavo dentro di me come un sasso e così è rimasta per molto tempo.

L’anno scorso, due vecchi amici di liceo sono venuti dal Brasile a trovarmi qui in Italia perché festeggiassimo insieme il nostro “mezzo secolo” di avventura. Alla fine di una cena qui a casa, dopo aver svuotato tutte le bottiglie di vino che avevamo a disposizione, uno di loro, Gilfredo, ha ricordato le triste vicende di quel 1980. Abbiamo pianto insieme, e molto. Sentivo che quel sasso che portavo dentro il petto cominciava a sciogliersi delicatamente.

Oggi, non so perché, mi sento meno pagliaccio, e i pagliacci, con la loro ambigua allegria, forse, mi danno meno fastidio. E per essere sincero, devo confessare di sentirmi addirittura felice. Non sfido il futuro, ma non lo temo nemmeno, ne il futuro, ne il passato. Non più.

1 commento:

Anonimo ha detto...

http://www.youtube.com/watch?v=NRqc_oQ6Y5k