domenica, agosto 03, 2008

Il Morto e lo Straniero


2008.07.27
Mi stavo preparando per andare all'ospedale, per fare la seconda notte affianco a Capo, mio suocero. Ero animato, fiducioso e al contempo sereno. Aspettavo soltanto che il computer finisse di trasferire una cartella da un disco rigido ad un altro. Erano quasi le nove di sera e il trasferimento della cartella gigantesca, contenente tutta la documentazione del Master che avevo fatto a Venezia, si stava finalmente concludendo.
Non volevo affrontare la lunga notte in quella strana solitudine a due, la mia e di mio suocero. Mi occorreva la compagnia del mio portatile. Nella prima notte di veglia alternavo l'assistenza a Capo alla scrittura di un messaggio a vecchi amici di scuola. Poi ho iniziato la lettura sullo schermo dell'Ovvio Ululante di Nelson Rodrigues. Quando si è fatto giorno e l'infermiere imbronciato è arrivato spingendo il suo carrello pieno di aghi, siringhe, bende e antibiotici e sollecitandomi di uscire dalla camera con mezze frasi poco articolate piene di scocciatura, ho capito che io, il mio computer, i miei vecchi amici di liceo, Nelson Rodrigues e anche Romolo Capodaglio eravamo di troppo. Bisognava fare posto alla vita reale, quella fatta di fatica, di rabbia, di fretta, di pane e di escrementi, di fumo e di macchina, di soldi e dell'onnipresente mancanza di essi; una vita in cui la dolcezza, l'affetto, la fratellanza, i sogni sono ancora più stranieri che i famigerati extracomunitari.
Per questa ragione ero contento di andare a fare la seconda notte all'ospedale vicino al mio carissimo e, posso anche dirlo, amato suocero. Per me era un po' come andare a casa, anche se in campeggio e per poco tempo, per stare in compagnia di amici, vicini e lontani. Ero contraddittoriamente euforico come chi parte per un viaggio di ritorno, da clandestino, per attraversare frontiere.
Appena finito il trasferimento della cartella suona il telefono fisso e subito dopo il cellulare di Gigliola. Pensavo che volessero sapere se ero già partito e per questo mi sono anticipato dicendo che sarei arrivato fra poco. Ma Gigliola m'interrompe: "Babbo è morto".
Niente notte insieme a Capo all'ospedale. Siamo andati invece tutti e tre, Gi, Marina e io, per portare l'ultimo vestito del piccolo vecchio Romolo.
Ero sorpreso e deluso. Non potevo immaginare che quel "poco tempo di vita" significasse così poco tempo. Nessuno mi aveva detto che negli accertamenti condotti all'ospedale avessero riscontrato un tumore al polmone che si era esteso anche al fegato. Anche se mi avessero detto del tumore, mi sarei aspettato più tempo, un'agonia meno breve.
L'ultima volta che avevo sentito l'espressione "poco tempo di vita" è stato nel 1985, in Brasile, dopo la seconda operazione di mia madre, Marilva. Il chirurgo ha chiamato i figli per dire: "Niente, non c'è più niente da fare. Inutile qualsiasi cura. Il cancro è troppo ramificato. Vostra madre ha poco tempo di vita"
"Quanto tempo?", domandai.
"Non lo so, ma poco, pochissimo"
Allora sono partito da San Paolo verso Natal, a tre mila chilometri, dove abitavo con Gi, la mia mogliettina giovane e carina, tenendo con me un solo desiderio: portare Marilva a Natal, se possibile, per stare in una casa davanti al mare e, se possibile, con tutta la famiglia riunita intorno a lei.
Ho affittato per tre mesi una casa sulla spiaggia di Cotovelo. I miei fratelli sono riusciti a far volare mia madre, nonostante la riluttanza della compagnia aerea di imbarcare un passeggero così visibilmente malato.
Abbiamo vissuto in quella casa per tre mesi in un frenetico andare e venire di familiari che arrivavano e partivano da lontano. Per alcuni giorni c'eravamo tutti quanti, insieme. Marilva con sua figlia e i suoi figli, anche Baixinho, il suo figlio più piccolo, il nostro fratellino, che ci aveva lasciati cinque anni prima, faceva sentire la sua presenza, e come. C'era Filhinho, suo marito e nostro padre. C'erano i suoi nipoti, i suoi generi e nuore. C'eravamo tutti e Gi ci ha fatto anche una foto di gruppo. Sarebbe stato bello se mia madre fosse morta in quei giorni. Ma no! Marilva è morta due anni più tardi, molto dopo aver affrontato il viaggio di ritorno a San Paolo. Sono stato per ben quattro volte da lei per passare gli "ultimi giorni" al suo fianco. Mamãe ha ricevuto l'estrema unzione per tre volte, dato i dubbi di mio fratello Adolpho sulla scadenza del sacramento. La notizia della sua morte l'ho saputa per telefono. "Se ne è andata, fratello", disse Adolpho. "Grazie, Dio", risposi sollevato.
Quando penso alla morte di mia madre, mi viene in mente il modo come lei mangiava il pollo. Prendeva gli avanzi che noi lasciavamo sul piatto. Li teneva con le mani, e ripuliva con i denti e le labbra tutti quei pezzettini di carne e di muscoli attaccati alle ossa che poi rimanevano da sole, splendenti. Faceva in questo modo anche se c'erano dei pezzi interi sulla fiamminga per lei. "Mi piace così", diceva. Il suo boccone preferito era il culo della gallina. Lo degustava in una beatitudine scandalosa. Ai nostri sguardi critici rispondeva sorridente: "Come mi piace!!!" Sì, Dio l'ha mangiata come lei mangiava il pollo.
Capo era tutto un altro paio di maniche. Uomo pragmatico, padrone di un'intelligenza pratica messa a servizio di una enorme generosità. Imbianchino. Conciliava dentro di sé intelligenza e intuizione, diplomazia e schiettezza, riflessione e irascibilità, con la stessa naturalezza con cui mescolava i colori nel bidone. Capo brillava in una tonalità unica, che non si sbiadiva né con la pioggia né con il sole sebbene fosse meteoropatico. Amante della libertà, il suo motto era: "Faccio come mi pare". Ultimamente mi diceva spesso: "Non ti invecchiare". Aveva lasciato delle direttive precise: "Se io dovessi aver un male, non mi voglio fare operare né sottopormi a quei trattamenti inutili" che aveva testimoniato tante volte negli ultimi anni. Nutriva diffidenza verso i medici e avversione agli ospedali. Negli ultimi mesi era molto depresso. Usciva poco da casa. Dal suo ricovero al suo decesso non è passata neanche una settimana. E così, quando ho fatto la mia prima notte all'ospedale insieme a lui non potevo immaginare che sarebbe stata anche l'ultima. Ogni tanto riusciva ad aprire gli occhi, ad alzare le braccia e per più volte ha chiamato "Mamma". Spesso faceva delle smorfie seguite da gemiti mentre cercava di togliersi il catetere. Era la notte di venerdì, 25 luglio. Capo è morto domenica, 27 alle nove di sera. I sedativi non gli permettevano di bestemmiare, ma se potesse, avrebbe maledetto quel catetere e chi glielo aveva fatto mettere. "Questo è poco ma sicuro", come diceva lui. La sua fine è stata rapida e rasante. Non so se l'avrebbe voluta in questa maniera, ma così è andata. La sua morte è stata schietta come le sue battute. Adesso toccherà a chi lo ha conosciuto e amato custodire dentro di sé un po' della sua luce, della sua energia, della sua vita.